venerdì 1 luglio 2022

PIPPO MORELLI, INTERPRETE DEL FUTURO DEL LAVORO. GUARDA LA REGISTRAZIONE DEGLI INTERVENTI SU YOUTUBE

 Sul canale YouTube del Centro Studi Ricerca e Formazione Cisl è disponibile la registrazione dell'incontro di presentazione del libro: "Sapere, Libertà, Mondo. La strada di Pippo Morelli" (di Francesco Lauria, Edizioni Lavoro) all'Aula Magna dell'Università di Reggio Emilia, organizzato da Fim-Cisl Metalmeccanici Fnp Cisl, Cisl Emilia Romagna, Cisl Emilia Centrale


Introduzione di Rosamaria Papaleo, Segretaria Generale Cisl Emilia Centrale; Daniela Fumarola, Reggente Nazionale Fnp Cisl; Filippo Pieri, Segretario Generale Cisl Emilia Romagna.
Interventi di Gian Primo Cella, Università Statale di Milano; Pier Paolo Baretta, già Segretario Generale Fim Cisl e Segretario Generale Aggiunto Cisl; Francesco Lauria, Centro Studi Cisl; Chiara Morelli, formatrice nazionale Agesci; Romano Prodi, già Presidente del Consiglio dei Ministri e della Commissione Europea.
Conclusioni di Ferdinando Uliano, Segretario Nazionale Fim Cisl. Coordinamento: Ester Crea, giornalista.


mercoledì 22 giugno 2022

Un sindacato e un uomo: “dipinti di cielo e macchiati di terra” (1)

 

Di Francesco Lauria – Centro Studi Cisl Firenze[2]

           

Lunedì 20 giugno è stata una giornata stupenda, attesa. Non retorica.

Oltre 250 persone nell'Aula Magna dell'Università di Reggio Emilia, la sua città, ad ascoltare la "strada di Pippo Morelli", interprete del futuro del lavoro. con i contributi di Rosy Papaleo, Filippo Pieri, Daniela Fumarola, Gian Primo Cella, PierPaolo Baretta, Romano Prodi, Chiara Morelli, Ferdinando Uliano, coordinati magistralmente da Ester Crea. Questa è la traccia, ampliata, del mio intervento.


Ho riflettuto a lungo su come iniziare il mio intervento in questo emozionante incontro sulla strada di Pippo Morelli.

La memoria è tornata a Bologna, presso la sede della Cisl Emilia Romagna, in un lunedì caldo (quasi) come questo: il 22 luglio 2013.

A un mese dalla morte, in una sala gremita, si svolsero la Messa e il ricordo di Pippo Morelli, celebrati e coordinati dall’indimenticabile cuore e voce di Beppe Stoppiglia.

Il sacerdote e fondatore di Macondo raccontò, in quella occasione, della sua prima conversazione a Bologna con Pippo, nel 1977.

Tratteggiava così il suo amico:

“Pippo è stato un sindacalista sempre con la schiena dritta, un uomo forte e resistente, talmente trasparente e vero da diventare scomodo come tutti i profeti. Si, perché Pippo è stato ed era un profeta, anche nel sindacato, per la sua genialità e la sua capacità di leggere i segni dei tempi, con l’occhio innocente di un bambino scanzonato.

Un uomo dipinto di cielo che si è macchiato di terra per farsi racconto di Dio in mezzo ai poveri, agli ultimi, i senza nome e i senza voce”.

Continuava…

“Per alcuni il suo atteggiamento era imbarazzante, perché considerato provocatorio, ma la sua umiltà e la sua immediatezza lo rendevano una persona disarmata. Essendo un uomo libero, attirava a sé i semplici e i puri di cuore, era un poeta della pedagogia sociale.”

Quel giorno fu, insieme, doloroso e illuminante. Pensavo di essere stato l’unico a salire a Bologna da Pistoia. Non era così.

C’era anche Antonio Piras, sindacalista sardo trapiantato in Toscana, dirigente della Femca Cisl, che con Morelli aveva percorso un significativo tratto di strada.

Antonio si presentò insieme al suo nipotino che, valicando con lui l’Appennino, lo aveva accompagnato nel viaggio. Con sguardo profondo, che non ho mai dimenticato, tenendolo per mano, spiegò a tutti, con parole semplici e scandite, che era per il futuro di quel bambino che, nonostante i venti anni del suo obbligato silenzio, non si poteva dimenticare Pippo Morelli: interprete del futuro del lavoro.

Lavoravo da circa un anno al libro su Pippo e non ero ancora pienamente consapevole del “giacimento minerario” rappresentato da questo protagonista “quasi inavvertito” del Novecento sindacale e sociale italiano.

Conoscevo la storia di Pippo grazie a tre persone che mi avevano aiutato nella ricerca sulle 150 ore per il diritto allo studio: Bruno Manghi, Paola Paola Piva e Domenico Paparella.

Era stato proprio Paparella, altro fimmino, intellettuale-sindacalista, prematuramente scomparso, a rispondere, nel 2005, per primo alla mia domanda: “Ma chi è questo Pippo Morelli?”

Cominciavo a studiare l'Flm, gli anni dei metalmeccanici (e non solo) che davano l'assalto al cielo, ma soprattutto conquistavano e organizzavano diritti, non solo salario.

Studiavo l'Flm, la sinistra sindacale, grazie al per me illuminante lavoro di Fabrizio Loreto “L’anima bella del sindacato”, ricostruivo le 150 ore e mi ero imbattevo continuamente in questa figura in cui mi immedesimavo più che in ogni altra.

Persino più che in Vittorio Foa, che mi aveva affascinato enormemente fin dagli anni dell'università.

In Morelli, intuivo qualcosa di speciale, unico, un intreccio di radicalità e di visione, di intraprendenza organizzativa e di capacità di anticipare il futuro, apertura educativa e testimonianza esigente. Di fede, giustizia e libertà, che mi stupivano, mi accarezzavano, mi spronavano ogni volta.

Certo, c'era anche l'inquietudine ostinata in cui tanto mi riconoscevo e riconosco.      La capacità, come ha spiegato Carmine Marmo, di non accontentarsi mai, di accendere fuochi senza sosta, senza volerli per forza controllare. Non serve, infatti, dominare i fuochi accesi, i “tizzoni ardenti”.

Solo anni dopo avrei iniziato, nel 2012, alla conclusione della mia ricerca sulle 150 ore per il diritto allo studio, a percorrere, "a palmo a palmo" la sua strada.  Avrei incontrato Susanna, Chiara, Francesca, Giorgio, Macondo e Beppe Stoppiglia, il mondo di Pippo anche attraverso gli occhi amichevoli, ma mai accomodanti, di Pierre Carniti.

C’è qualcosa di ancor più grande che ci rivela la sua storia.

Mentre cercavo l’eresia ho incontrato in lui, proprio come in Pierre Carniti, la formula segreta e incarnata della “splendida anomalia” della Cisl.

Una formula, ci tengo a precisare, mai definita e definitiva.

Ricostruire lo spirito fondativo della Cisl e i progetti e gli incontri che ne hanno permesso l’evoluzione e il divenire, non è opera semplice, poiché molte e ricche furono le influenze e le positive contaminazioni.

Allo stesso tempo, però, non è difficile concordare con quanto ha scritto Vincenzo Saba:

“i protagonisti di quella scelta avevano infatti come patrimonio e come loro risorsa fondamentale, un’idea molto semplice, ma anche molto importante per la vita dei popoli e, quindi, per la vita del sindacato: che il sindacato doveva essere libero”.[3]

Ripercorrere la vita di Pippo ci permette di comprendere a pieno al progettualità della frase di Giulio Pastore al primo congresso della Cisl: il celebre: “dobbiamo creare tutto dal nuovo”.



Non solo una frase ad effetto a tema organizzativo: ma la scommessa della creazione di una nuova e inedita cultura e prassi sindacale a livello mondiale.

Il primo congresso della Cisl e il primo corso lungo della confederazione a Firenze (non ancora in Via della Piazzola) partono quasi appaiati, debitori uno all’altro.

Non è un caso che proprio Pippo, solo un anno dopo Carniti, Crea, Colombo, Marini, Sartori, quasi contemporaneamente a Maresco Ballini e Franco Bentivogli, fresco della discussione della tesi di laurea con Mario Romani, acceda ad un esperimento unico e peculiare, per nulla casuale: il corso esperti della contrattazione.

“Giovani menti”, avrebbe detto Giuseppe Dossetti, i neo-laureati più promettenti del paese, che, con un approccio multidisciplinare, vengono a formarsi, chiamati da Giulio Pastore, sulle colline di Fiesole per “masticare” il sindacato e apprendere e poi insegnare come sostenere la diffusione concreta della contrattazione aziendale in Italia.

Non intellettuali del sindacato, quindi, ma realizzatori di una ricerca-azione che, nel quotidiano, si adopereranno nella costruzione paziente delle condizioni certo non semplici per la realizzazione della contrattazione articolata in tutto il Paese.

Se studiamo, solo per avere due esempi, le biografie di Carniti e di Morelli alla fine degli anni Cinquanta, ritroviamo proprio questo impegno cruciale nella nascita e nel progressivo consolidamento, non solo operativo della Cisl: la centralità in dialogo con i territori del Centro Studi di Firenze, l'effervescenza e la costruzione di una nuova cultura sindacale che si misura con la realtà e con la scommessa verso la formazione e l’accompagnamento di una nuova classe dirigente diffusa e consapevole.

Una cultura sindacale che, come spiega spesso Gian Primo Cella, si arricchisce ulteriormente nel contesto milanese in cui anche Pippo inizierà ad operare.

Con la guida, certo, del “faro” Carniti, ma attraverso una squadra non solo di dirigenti sindacali, ma anche di importantissimi membri delle commissioni interne, delegati di fabbrica, che costruiranno sul campo il “sindacato nuovo” nel contesto industriale milanese.

In quegli anni si darà anche, vita ad un esperimento, a mio parere ineguagliato, di effervescenza culturale e di elaborazione: la rivista “Dibattito Sindacale”.

Come ha spiegato molto bene Morelli stesso c’è una data che è uno spartiacque.

Una data molto precedente al biennio impetuoso del 1968-1969.

Se gli anni cinquanta sono gli anni della “semina”, il primo raccolto, infatti, ha una data precisa: il 1962.

L’anno dell’affermazione definitiva della contrattazione aziendale (con il protocollo Intersind-Asap), ma anche della nascita della nuova Fim.

Una dirigenza nuova viene eletta e avvia una stagione di “risveglio sindacale” e di radicali trasformazioni delle relazioni contrattuali scriveva Pippo nella sua “Memoria sul 1962”.

Non posso qui, in terra emiliana, non ricordare un’altra grande figura recentemente scomparsa: Giovan Battista Cavazzuti, il primo degli innovatori ad entrare nella segreteria nazionale della Fim-Cisl.

Sono questi gli anni della prima temeraria unità d’azione con Fiom e Uilm, sperimentata già alla fine degli anni Cinquanta a Brescia dal gruppo raccolto intorno a Franco Castrezzati.

Sono anche gli anni della ricerca positiva dell’autonomia di cui l’incompatibilità tra incarichi sindacali e politici, diviene conseguenza naturale e procede di pari passo con il percorso di unità sindacale dal basso.

Quello dell’unità sindacale, come è noto, sarà uno dei riferimenti principali dell’impegno di Pippo Morelli.

Un “grande balzo interrotto”, per dirla con Bruno Manghi con i suoi sogni e i suoi deragliamenti, con la sua passione, radicale e diffusa e i tanti nodi irrisolti, interni ed esterni al mondo del lavoro.

Lo dico oggi proprio a pochi giorni di distanza dal cinquantennale della fondazione della Federazione Cgil Cisl Uil del luglio del 1972.

La strada di Pippo Morelli ci accompagna negli anni caldi del '68 e del '69, quelli dei "capelloni alla Cisl di Milano" e del "potere contro potere", fino ai contratti nazionali del 1973 e del 1976 e alla lotta democratica contro il terrorismo e le stragi di stato e per l’affermazione dei diritti civili, sociali e democratici.

Anni in cui ci si impegnava nella ridefinizione del potere nei luoghi di lavoro anche attraverso un sapere che “non ha padrone”. Come ci spiega il “vecchio zio” Bruno Manghi.

Non solo 150 ore, ma anche salute, sicurezza, medicina del lavoro e diritti di informazione e consultazione.

Ma anche, almeno per Pippo, non solo sindacato: pensiamo all’esperienza di “Cristiani per il socialismo” e all’impegno instancabile, personale, da profondo credente, nella campagna del referendum contro l’abolizione del divorzio.  Valori, come quello delle famiglia,” che si vivono e si testimoniano da “cattolici adulti, certo non si impongono, men che meno legislativamente.

Una battaglia quella dei Cattolici per il No al divorzio condotta insieme a Pietro Scoppola, ma, anche, ancora una volta, a Luigi Macario e a Pierre Carniti.

Pippo, credente, scout, proveniente da una famiglia importante del cattolicesimo democratico e sociale reggiano fu, come Carniti, un fulgido interprete della “laicità” della Cisl.

Pippo stava terminando la sua collaborazione con il Centro Studi guidato da Silvio Costantini quando nel 1962-1963 uscì un’interessante dispensa a cura della scuola di formazione della Cisl[4].

Vi era scritto:

“Il sindacato democratico non si propone di elaborare un suo compiuto sistema filosofico e tanto meno religioso (…) Il movimento sindacale, di fronte all’incontro di persone di ideologia diversa, non può adagiarsi su schemi precostituiti ed è sollecitato a porre sempre più attenzione ai valori fondamentali che determinano la solidarietà tra i lavoratori (…) nessun lavoratore, aderendo al movimento sindacale, deve sentire mortificata la sua concezione di vita”.

Emerge una Cisl pensata con le porte aperte, orgogliosa del proprio pluralismo interno.

Come ha osservato Pierluigi Mele con parole che sarebbero state certamente condivise da Pippo: “In questo senso il sindacalista della Cisl ripone nella sua autonoma capacità di giudizio – ossia nella sua perizia laica sulle cose del mondo, e nella fedeltà ai valori della solidarietà tipica del mondo del lavoro – il senso” del suo agire[5].

Sono temi importantissimi, ma faremmo un torto a Pippo Morelli se ci fermassimo qui.

Con lui, in dieci anni di lavoro e di ricostruzione “mineraria”, ho attraversato anche gli anni ottanta del riflusso e di un'Occidente e di un capitalismo che, per usare le parole di Beppe Stoppiglia, "scivolava sempre di più".

La direzione la conosciamo: è il maledetto trionfo di quello che Papa Francesco definisce nei suoi scritti: "economia dello scarto".

Mi spingo oltre: gli anni ottanta e i primi anni novanta, fino a quando l'ictus lo colpì duramente, sono forse gli anni più significativi di Pippo Morelli, almeno come elaborazione teorica.

Anni spesso di sconfitte, anche forse di emarginazione crescente, ma di grande visione. Dalle riflessioni sul sindacato nel territorio, al dibattito non solo sul "come produrre, ma sul cosa produrre", all'attenzione al lavoro frammentato, alla formazione professionale, all’informatizzazione, alle problematiche degli anziani, della società multiculturale, alle nuove frontiere dell'educazione degli adulti, anche a partire dalla marginalità.

Fino alla grande questione della conversione ecologica globale ed integrale della società, dell'economia e del sindacato. Del disarmo.

Va ricordato però che, in soli tre anni, dal 1982 al 1985, Pippo, da segretario generale, costruisce come guida paziente e impetuosa il “sindacato nuovo” anche in Emilia Romagna.

Un nome per tutti: l’Isfel e quell’idea di un sindacato “bianco” che, proprio con la forza di un’elaborazione concreta che, “non ha padrone”, riesce a contare davvero nell’Emilia rossa. Con la forza delle idee, non solo dei numeri.

Sta qui il senso di ricordare Pippo Morelli oggi, sta qui il senso di queste parole, di queste tre tracce di cammino: “Sapere, Libertà, Mondo”.

A queste parole ne affiancherei nel confronto con l’oggi altre: “Sogno, cura, servizio”.

Sta proprio qui il lascito, l’invio, come ha scritto Ivo Lizzola nella postfazione al libro.

In questi tempi “furiosi” di esplosione di disuguaglianze e di guerra, di fragilità strutturale e molteplice, dopo la pandemia, tornare a Pippo Morelli, significa chiederci: "Da dove veniamo"? Ma anche: "chi siamo e dove stiamo andando?."

Se è vero, come affermava Vittorio Foa, che il passato non ci dà risposte, ma ci aiuta a formulare, meglio, decisive domande, ripercorrere la strada di Morelli, significa immergersi nel nostro presente.

Nelle urgenze di un sindacato che deve essere sempre più prossimo a chi non ha voce, non ha dignità, non ha parole. A partire dai giovani. Un sindacato, avrebbe detto Pippo Morelli, moltiplicatore di trasformazione, non di conservazione.

Non solo luogo educativo, ma comunità educante.

Palestra quotidiana di emancipazione, relazione, libertà. Pane e rose. Poesia e prosa. Interessi e Ideali.

“Sogno, cura e servizio”, appunto.

Siamo sommersi di parole. Proprio per questo abbiamo bisogno di metodo, visione e speranza e di saperle tenere insieme con autenticità.

Parole, ma soprattutto azioni conseguenti, progettualità per ritrovare quello spazio di impegno condiviso e collettivo, di cooperazione di comunità inclusiva e di rappresentanza democratica che significa spostare, senza facili moralismi, il mondo intorno a noi, anche solo di un millimetro, verso pace, giustizia, fratellanza, amore, rispetto, dignità.

La nostra bussola, o meglio, “il nostro astrolabio”, per dirla con Don Lorenzo Milani e la scuola di Barbiana.

Concludendo.

Se vogliamo che la “strada di Pippo” divenga oggi, almeno in parte, patrimonio, traccia condivisi, dobbiamo ricordarci, come ci ammonisce Jhonny Dotti, che essere sindacalisti ed in particolare essere sindacalisti della Cisl, non è solo “funzione”, ma ricerca del senso.

Pippo ci illumina proprio nel mantenere, nel non disperdere il patrimonio del senso.

Senso di responsabilità individuale (il “ciascuno è responsabile di tutto di Don Lorenzo Milani), ma anche sforzo progettuale e collettivo.

Se l’uomo perde il senso, ci ha detto Jhonny al congresso nazionale della Fim Cisl a Torino, citando Fabrizio De Andrè è: “come un cinghiale che fa le equazioni”.

Facciamo i conti, da oltre trent’anni, con la fine dell’ideologia, ma anche con la crisi nichilista delle parole.

Pippo che era attento lettore di Maritain, ma soprattutto di Emanuel Mounier, sapeva ben distinguere la parola persona dalla parola individuo.

Le parole non sono i termini binari dell’informatica: le parole, un po’ come il lavoro, sono misteri di relazioni.

Come spiegava benissimo Beppe Stoppiglia raccontando di Pippo nelle favelas brasiliane, il sentimento profondo di solidarietà non ha nulla a che fare con la ragione. Se l’altro soffre, soffri anche tu.

Ma questo è il, necessario, punto di partenza. Se il sindacato è figlio della mediazione tra giustizia e libertà, se sa stare in mezzo, facendo anche dei compromessi, esso, ci ammoniva con mitezza Pippo, deve sapere guardare avanti, non rinunciare mai all’orizzonte di senso, significato della Vita.

Un punto decisivo sta nell’intreccio tra servizi individuali o meglio “personali” e diritti collettivi, declinati informa non solo collettiva, ma “collettivizzante”, in altre parole generatrice di comunità.

Ci sono tantissime esperienze, a cavallo tra territorio e impresa, che necessitano di una strategia complessiva di inclusione e moltiplicazione. Un po’ come a metà anni cinquanta con la contrattazione aziendale.

Tornando alle parole.

Pippo usava spesso la parola “compagni”.

Spiegava agli scettici e conservatori, anche nella Cisl, che la radice era “cum panis” coloro che spezzano il pane insieme.

Allo stesso tempo se oggi, specialmente in tempo ed economia di guerra, ci insegnano che la “competizione” è semplicemente “uccidere l’altro”, (e non certo spezzare il pane insieme!) dobbiamo tornare alla radice vera delle parole: “cum petere”, significa correre e chiedere, chiederci, insieme.

Non solo “coscientizzazione”, per citare Paolo Freire, ma sempre di più un sindacato dell’ascolto come ci ha detto benissimo all’ultimo congresso della Cisl il segretario generale della Fim Cisl Roberto Benaglia.

La competizione positiva tiene dentro di sé il senso della relazione e della dignità. Non esclude in alcun modo il conflitto, né il “diritto e dovere di dissentire”, ripudia, invece, la guerra e la violenza.

Pippo Morelli può aiutarci in questo nuovo inizio, in cui insieme alle “competenze”, occorrono intelligenza emotiva e, perché no, laicamente spirituale.

Un’intelligenza emotiva e spirituale che sappia rispettare la parola e le parole, ma che non smetta mai di farsi provocare dalla realtà e di provocarla a sua volta.

Tornare a Pippo e a Papa Francesco ci mette in cammino verso un sindacato che non può che essere, insieme, “profezia ed innovazione”, senso della relazione e della dignità.

Cosa ci dice in questo 2022, cento anni esatti dalla presa del potere del fascismo, Pippo Morelli?

Ci dice che le persone, i lavoratori, gli iscritti, non sono una somma di tessere. Altrimenti, come ha spiegato sempre Dotti al congresso della Fim, un’App fra non molto agevolmente ci sostituirà.

Gli altri sono risposta a una convocazione, sono una passione, una visione, una compagnia. Non possiamo farne a meno.

La pandemia ci ha insegnato qualcosa di molto importante e che non dobbiamo dimenticare troppo facilmente.                        

Come ho compreso leggendo Morelli, ma anche dialogando direttamente con Carniti: dobbiamo condividere non la nostra potenza, ma la nostra ferita, la nostra precarietà, la nostra fragilità. Saper ripartire, anche, dalle nostre sconfitte, dal non sapere dare, sempre e comunque, tutte le risposte.

Pippo Morelli rifletteva nel 1991, insieme ad Alexander Langer, su una nuova unità sindacale basata sulla cultura del limite e della sostenibilità.

Proprio questa cultura ci spiega che il sindacalista e il sindacato, per curare la società dello scarto, non possono che mettere a disposizione la propria ferita, il proprio dolore, la propria insufficienza.

E’ questa la strada stretta per costruire principi viventi di solidarietà. Per attraversare l’incontro cosciente e incosciente di fragilità, la cultura della cura e dei frammenti. Dalla pluralità condivisa degli sguardi.

Dobbiamo essere capaci di guardare oltre, capire, anche da un punto di vista organizzativo e sociale, che non possiamo “fare da soli”.

Pippo ci racconta oggi quindi anche che il “sindacato da solo non basta” se vogliamo partire e ri-partire da quelle periferie, del lavoro ed esistenziali, che si trovano nelle nostre città e metropoli, come nelle aree interne, troppo spesso dimenticate.

Ma Pippo, Beppe, Pierre ci raccontano anche che il sindacato nella rappresentanza e nella rappresentazione del lavoro, non può che essere anello importantissimo, ma non unico, della carovana della dignità che si mette in cammino ogni giorno in tanti luoghi spezzettati di un pianeta interconnesso.

Il sindacato “trionfante” a cavallo degli anni sessanta e settanta ha fatto anche degli errori.

Ma capì una cosa che, mentre si “assaltava il cielo”, non era semplice.

Comprese, infatti, che occorrevano investimenti contrattuali sull’orizzonte di senso e, allo stesso tempo, che erano necessarie alleanze nella società per la costruzione di una democrazia compiuta e per rendere effettive ed estese azioni e conquiste.

Sarebbe bello un giorno, solo per fare un esempio, raccontare l’impegno dell’FLM per la sindacalizzazione non corporativa delle forze di polizia e, un tentativo, ancor più sconosciuto, ve lo dico come curiosità, di “confederalizzare” la nascente Associazione dei calciatori.

In questo campo largo ricordiamo non solo le 150 ore, ma anche il, già citato, e troppo dimenticato grande movimento sulla salute e sicurezza nei luoghi di lavoro e nel territorio.

Quel sindacato “potente” aveva intuito, anche se non sempre fu conseguente (pensiamo all’insuccesso dei Consigli di Zona), che la logica dell’E-E doveva prevalere su quella dell’O-O.

E’ il lascito, il sogno e la visione che ci vengono consegnati oggi. Nel solco di Pippo Morelli.

Sapere, libertà, mondo. Ma anche, lo ripeto un’ultima volta, ascolto, cura, sogno, visione.

Perché, per essere interpreti del futuro del lavoro, possiamo essere: “dipinti di cielo e macchiati di terra.”

                                                                 


1-

[2] Intervento al seminario: Pippo Morelli, interprete del futuro del lavoro, Reggio Emilia, 20 giugno 2022.

[3] V. Saba, Un passo che fece storia, in La nascita della Cisl 1948-1951, Edizioni Lavoro, Roma, 1990.

[4] La Cisl e la sua autonoma collocazione nella società italiana, in “Il Sindacato nella società democratica”, dispensa del Centro Studi di Firenze, 1962-1963.

[5] P. Mele, Parola chiave: laico in F. Vera Nocentini (a cura di), Sindacalismo e laicità. Il paradosso della Cisl, Franco Angeli, Milano, 2000.

venerdì 17 giugno 2022

MORELLI, PRODI e QUEL MERCATO DEL LAVORO DA ORIENTARE E TRASFORMARE, a partire dai GIOVANI.


Si avvicina una giornata attesa da quasi due anni: quella della presentazione in presenza a Reggio Emilia di Sapere, Libertà, Mondo. La strada di Pippo Morelli.
Tra i relatori, lunedì 20 giugno ci sarà anche il Prof. Romano Prodi.
C'è un passaggio del libro che mi piace ricordare: siamo nel 1983 il sindacalista e l'economista reggiano condividono la visione sull'informatizzazione e sul mercato del lavoro e il raccordo con la scuola e i giovani.
Morelli, segretario generale della Cisl Emilia Romagna scriveva su Italia Cooperativa: "I computers stanno entrando in fabbrica ma anche in agricoltura. E' una scelta di mentalità culturale che non può limitarsi ad una elite, come sostiene giustamente l'amico Prodi, ma deve riguardare il complesso della forza lavoro. Avremo sempre più bisogno di un largo ceto operaio altamente qualificato per sostenere la crescita economica anche nella nostra Regione: ma occorrerà anche una collaborazione delle famiglie nell'orientare la scelta del lavoro oltre che indicazioni pubbliche che oggi mancano completamente".
Il 1983 è un anno importante per questi temi. La rivista della Cisl Contrattazione dedicherà nell'estate un numero monografico all'argomento: "Collocamento: quale riforma?" dopo l'accordo (una "riforma dimezzata") avvenuto il 22 gennaio dello stesso anno.
Il tema dell'occupazione giovanile e dei contratti di formazione-lavoro sarà molto dibattuto, ma porterà a limitati risultati, soprattutto dal punto di vista qualitativo.
Come sempre Morelli passava dall'analisi alla proposta concreta:
"Occorre un osservatorio del lavoro che possa quantificare il fabbisogno del mercato del lavoro, ma che sia sia in grado di raccordarsi alla scuola per facilitare la scelta scolastica dei giovani e il loro inserimento nel mondo produttivo. Oggi questa attività manca completamente. Esiste l'ampia rete dei centri di formazione professionale, ma è un'attività che va meglio raccordata e coordinata. Comunque, il nodo dell'orientamento ritengo sia essenziale per scavare delle qualità, delle attitudini e per non sprecare talenti ed energia in lavori e mestieri troppo affollato, che rischiano anche di accrescere la massa dei disoccupati cronici."
Molto interessante è poi la risposta all'interlocutore che chiedeva se l'aumento della disoccupazione fosse legato anche ad una disaffezione al lavoro. Qui la risposta di Morelli sembra essere quasi profetica, certamente indice di grande visione. Così rispondeva:
"Non si può parlare di disaffezione ma semmai di un modo nuovo di vedere il lavoro e di lavorare. L'incremento del precariato dimostra che non è diminuita in assoluto la tendenza al lavoro, ma che si cercano soluzioni personalizzate, sottratte all'orario troppo fisso, all'organizzazione della fabbrica e del lavoro".
Sembrano parole scritte ieri. Sono di quasi quaranta anni fa...
Vedi le informazioni sulla presentazione del libro a Reggio Emilia: https://www.fondazionetarantelli.it/pippo-morelli-il-20.../

martedì 7 giugno 2022

Pippo Morelli: il 20 giugno la presentazione del libro a Reggio Emilia con Romano Prodi


Si svolgerà il prossimo lunedì 20 giugno dalle 15.30 alle 17.30 presso l'Aula Magna dell'Università di Reggio Emilia l'incontro: "Pippo Morelli: un interprete del futuro del lavoro".

Il seminario, organizzato dalle federazioni nazionali dei metalmeccanici e dei pensionati della Cisl e dalla Cisl Emilia Romagna,

sarà occasione di discussione del libro di Francesco Lauria: "Sapere, Libertà, Mondo. La strada di Pippo Morelli" (Edizioni Lavoro) dedicato al sindacalista reggiano, tra gli ideatori delle 150 ore per il diritto allo studio, già segretario generale della Cisl Emilia Romagna e direttore del "mitico" Centro Studi Nazionale Cisl di Firenze.

Ai lavori prenderanno parte Rosamaria Papaleo, segretaria generale della Cisl Emilia Centrale, Daniela Fumarola, reggente Fnp nazionale, Filippo Pieri segretario generale Cisl Emilia Romagna, il prof. Gian Primo Cella, gli onorevoli  Romano Prodi e Pierpaolo Baretta, Chiara Morelli, formatrice nazionale Agesci e figlia di Pippo Morelli, Francesco Lauria, autore del libro.

Concluderà il convegno, che sarà moderato da Ester Crea, il segretario generale della Fim Cisl Roberto Benaglia.


giovedì 21 aprile 2022

“MA PER ANDARE AVANTI…” RIFLESSIONI SU RESISTENZA, GUERRA E 25 APRILE.


“Forse questa mia giornata terrena potrebbe non vedere l’alba di domani. Non mi spaventa la morte. (…) Nell’istante prima del mio tramonto, mi prenderebbe una sola nostalgia: quella di aver poco donato.

Oggi la mia confessione ultima sarebbe questa: l’odio non è mai stato ospite della mia casa. Ho creduto in Dio, perché la sua fede è stata la sola ed unica forza che mi ha sorretto”.

Dal diario di Giorgio Morelli, nome di battaglia “Il Solitario”, 9 agosto 1947, due giorni prima di morire.


1.    Due nonni agli antipodi eppure entrambi costruttori della nostra democrazia.

Mi sono sempre chiesto quanto forte fosse il mio debito, anche da un punto di vista generazionale, nei confronti dei miei due nonni: Anesio Finardi, partigiano cristiano (e democristiano) nativo della bassa parmense e Francesco Lauria (porto il suo nome), originario della Val d’Agri, in Basilicata, comunista ed esponente della Cgil, a lungo confinato dal fascismo a Perdasdefogu, in Sardegna.

Nonno Anesio scomparve, dopo una dolorosa malattia nel 1960, quando mia madre aveva solo undici anni; nonno Ciccio, quasi improvvisamente, circa due anni prima che io nascessi, nel 1977.

Pur non avendoli conosciuti ho sempre pensato come rappresentassero una perfetta sintesi della pluralità, anche geografica, non solo ideologica, dell’impegno antifascista.

Anesio Finardi, partigiano cristiano (Parma) e Francesco Lauria, antifascista e sindacalista lucano.

Negli anni Novanta, soprattutto prima di partire per Gorizia e Trieste per gli studi universitari (quando diversa era lì la memoria della resistenza e il rapporto con la dolorosissima tragedia delle Foibe e dell’esodo!) ho frequentato abbastanza a lungo i locali del complesso di San Paolo a Parma, dove si trovavano, separati da un corridoio e da una rampa di scale, la sede dell’Istituto della Resistenza e i locali spartani e quasi immobili nel tempo dell’Apc (io la chiamavo così, senza la n): l’Associazione dei Partigiani Cristiani.

I rapporti con l’istituto e con l’Anpi, già allora non erano sempre semplici: come in molti Istituti Storici della Resistenza sparsi per l’Italia si viveva sempre con un misto di “obbligo di collaborazione” e di dialettica politica e identitaria permanente, specialmente quando le attività delle associazioni resistenziali si confrontavano con i temi dell’attualità politica, internazionale, nazionale e locale.

 

2. Alle radici di un impegno. La testimonianza di Giovanni Bianchi, primo presidente A(n)PC non partigiano.

Ritengo che sia naturale che nell’agone politico ci si confronti non solo con gli ideali, ma anche con gli interessi e che sia giusto contestualizzare l’azione delle associazioni nel tempo che esse si ritrovano a vivere, con tutte le difficoltà.

Detto ciò, ritengo anche che, per affrontare con pragmatismo un tempo così difficile, occorra tornare alle radici profonde dell’impegno e delle scelte, in particolare quella della Resistenza.

Ho incontrato di nuovo l’Apc con la presidenza di quello che per me e molti giovani è e sarà sempre un eccezionale maestro: Giovanni Bianchi.

Giovanni era stato eletto nel 2012 ed era il primo presidente dell’A(n)pc a non aver partecipato, per ragioni anagrafiche, alla Resistenza.

Di fronte alla nascita di nuove “sezioni” del’A(n)Pc le sue parole possono oggi ritornare assolutamente utili.

Decidemmo insieme di intitolare: “Tornare a Camaldoli”, l’intervista che gli feci per la rivista “Contromano”.

Chiesi come affrontava questo impegno così simbolicamente importante di Presidente dellA(n)PC:

Rispose così: “E’ la politica e meglio ancora la cultura politica che tiene insieme una grande associazione popolare. Perché la grande politica (e non la tattica o le convenienze) le conferisce una radice, un destino e quindi una missione. Cultura politica non significa idee che passano da libro a libro, ma il vissuto collettivo su un territorio e dentro una storia della quale si ha coscienza perché si continua a farne memoria.

Quando si strappano o si dimenticano le radici in genere si evocano i fantasmi del nuovismo, ma la perdita delle radici e della memoria consente soltanto di passare dal vecchio al vuoto. Guidare una grande associazione confrontandosi con le aggressioni dell’anagrafe significa soprattutto tenere culturalmente e concretamente insieme passato e futuro. Le grandi idealità del passato e gli esempi capaci di “contaminare” e affascinare le nuove generazioni. Chi ha il coraggio della discontinuità deve avere acuto il senso della storia: la grande politica è in grado di andare anche “contro” la storia, perché la conosce, la rispetta, sa che è indispensabile miniera nella quale è bene continuare a discendere.”

Una delle prima idee di Bianchi fu quella di promuovere gruppi di incontro intergenerazionali sul rapporto tra “Resistenza e Costituzione” introducendo anche il tema dell’art.11 e del ripudio della guerra:

L’ex presidente nazionale delle Acli la spiegava così: “Una grande epopea popolare come la Resistenza rischia la noia delle liturgie ripetute. I protagonisti di allora sono tutti da tempo avviati verso l’altra sponda. I superstiti hanno tenuto e tengono ancora alta la fiaccola, ma i più baldi hanno superato gli ottantacinque anni (era il 2013 ndR). L’idea va letta in questa prospettiva: messa in comune di storie ed energie con la possibilità concreta di aprire alle nuove generazioni. Fu Dossetti a indicare il legame profondo tra Resistenza e Costituzione. Nel senso che il patrimonio antropologico e ideale della Resistenza trova sbocco e architettura nella “più bella Costituzione del mondo”.

Continuava, con parole attualissime:

“La Costituzione non è leggibile infatti (si pensi all’articolo 11 e a quel verbo inedito che recita “l’Italia ripudia la guerra”) senza la pressione della seconda guerra mondiale e la spinta di ideale delle Resistenze europee. Sarebbe sufficiente una rilettura dei testi poetici e teatrali di padre Turoldo a ricreare una irripetibile atmosfera. Possiamo risalire all’epopea resistenziale, connubio di lotta armata sui monti e trasformazione delle coscienze nelle città, a partire dalla codificazione degli articoli forgiati alla Costituente. L’idea ha cominciato a funzionare. Il ponte tra le generazioni vede la costruzione delle prime campate, pur lavorando con i “mezzi poveri” consigliati da Giuseppe Lazzati.”

Da Presidente dell’Apc Giovanni Bianchi si confrontava con il vento del tutto inedito in quel 2013, rappresentato da Papa Francesco. La sue parole ci danno il senso dell’impegno cristiano in tempi difficili e alla ricerca di “testimoni”:

Aggiungeva: “La prima enciclica di Papa Francesco consiste nel nome. Il papa gesuita che indica per il discernimento e per la pratica le “periferie esistenziali”. Il cristianesimo ha bisogno di riflettere non soltanto sul rapporto con l’illuminismo, ma sui luoghi che ne sollecitano l’incarnazione e la testimonianza. (…) Occorre tornare, come invitava padre Turoldo, “a riprendere i nomi di battaglia, indossare le armi della luce” significa testimoniare, assumerci i rischi della condizione umana in questa complicata fase storica. Anche in Italia, i punti di riferimento non mancano. Da don Tonino Bello al cardinale Martini, a don Luigi Ciotti, per restare tra i presbiteri.

Quanto alla speranza, mi pare di poter dire con Mounier che essa non è parente prossima dell’ottimismo di maniera o di quello delle agenzie finanziarie. Non abbiamo ricette. Perfino gli economisti che si erano rifugiati in cerca di sicurezze scientifiche nei metodi econometrici hanno fallito. Dobbiamo provare a fare esperienze, sapendo che non tutte andranno a buon fine, ma senza il coraggio del rischio non si praticano le virtù civili e neppure il dovere del cristiano chiamato a perdere la propria vita.”

Il coraggio del rischio mi fa pensare a lui, da Presidente delle Acli, a Sarajevo nella difficile e controversa seconda marcia Mir Sada, nel 1993.

 

3.L’attualità di un messaggio di fronte alla possibilità di una guerra totale

Di fronte all’esplosione della guerra in Europa, al grido di dolore che ci viene dall’Ucraina, ai milioni di profughi, alla possibilità del disastro atomico, al riarmo diffuso, qual è il senso di attualità di quelle parole?

Bianchi ci ha lasciati nel mezzo dell’estate del 2017.

Un mese dopo la scomparsa del Presidente dell’Apc, il quotidiano Avvenire pubblicò un suo intervento inedito che riprendeva il filo dell’ultimo e discusso libro da lui curato: “Resistenza senza fucile”.

Il quotidiano titolava così. “Giovanni Bianchi: «La resistenza sia senza odio». A un mese dalla scomparsa del politico cattolico una riflessione dove descrive l'impegno partigiano, sull'esempio di Dossetti e Gorrieri, con lo spirito di chi al fucile antepone la risposta etica”.

Scriveva l’ex presidente delle Acli e di Apc, per l’ultima volta:

“Aveva ragione Norberto Bobbio quando affermava che il nostro Paese era fatto di «diversamente credenti» dove i cattolici semmai hanno una caratteristica.

Ho titolato il mio libro Resistenza senza fucile. I cattolici non è che fossero pacifisti, magari qualcuno sì. L’unico che ha partecipato a tutte le azioni disarmato è stato Giuseppe Dossetti sull’Appennino reggiano. Su quello modenese c’era Ermanno Gorrieri, sarà ministro del lavoro, che sparava cercando di mirare giusto. La differenza è in un’altra modalità di condurre la guerra, lo dice Gorrieri «Noi cercavamo di non fare stragi inutili e fare morti inutili».

Chi definisce meglio questa modalità dei cattolici, ma lo ripeto non è pacifismo, combattendo senza armi, a mani nude, è Ezio Franceschini (sarà rettore dell’Università Cattolica di Milano): «Noi cattolici abbiamo imparato a combattere senza odiare». Non è che se prendi una pallottola da uno che non ti odia non ti fa secco, però è diversa la modalità, il modo di affrontare il nemico. Io avevo una grande amicizia con Sergio Gigliotti, uno dei capi sull’Appennino parmense, scomparso un anno fa e vice presidente dei partigiani cristiani. Faceva il liceo a Genova e trovandosi sull’Appennino parmense si è aggregato ai partigiani. Farà la maturità classica alla fine della lotta di Liberazione con un tema, che avrei voluto leggere, intitolato Dante partigiano cristiano. Questo per dire qual era l’animo”.

C’è una riflessione conclusiva nell’articolo di Bianchi su Avvenire che mi ha fatto venire in mente la polemica tra Anpi e Apc di queste settimane e la riflessione, anch’essa divisiva, sull’aumento delle spese militari e l’invio di armi. Una polemica che, con l’avvicinarsi del 25 aprile, si è ulteriormente rinfocolata anche all’interno della stessa Anpi.

Viviamo una strana situazione in cui le associazioni partigiane sembrano diventare, troppo spesso, luogo privilegiato di polemica spesso fine a se stessa e non di dialogo. Protagoniste e, insieme vittime, a mio parere, di un’ansia “dichiarazionista” poco giustificabile e utile e che ha perso, almeno in parte, il senso della misura e anche della proporzione della tragedia che si sta consumando in Ucraina e soprattutto la necessità di impegnarsi per una soluzione diplomatica e il cessare urgente delle armi.

Scriveva Bianchi nel suo contributo...

“Vado alla conclusione con un altro episodio raccontato dall’amico ebreo Stefano Levi Della Torre, grande architetto, uno dei rappresentanti della comunità ebraica milanese.

Una volta mi spiegò, cosa che mi ha lasciato impressionato, che suo padre, partigiano in 'Giustizia e Libertà', dopo la Liberazione si trovava con un amico delle brigate Garibaldi una volta al mese. Sapete cosa facevano? Una volta al mese uno sosteneva le ragioni dell’altro! Un esempio stupendo di che cosa può essere la democrazia, l’ascolto, la comprensione. Una di quelle modalità che, comunque collocate nella Resistenza, ci spiegano come quelle persone abbiano provato a combattere senza odio.”

Un esempio che mi piacerebbe pensare avesse potuto essere seguito dai miei due nonni democristiano e comunista.

Concludeva il Presidente dell’Associazione Partigiani Cristiani con un tema di stringente attualità:

“Mi sembra davvero una cosa attorno alla quale riflettere. Se poi si viene all’oggi in un periodo nel quale si vendono armi a gogò. Pensate al viaggio di Trump in Arabia Saudita, contratti iper miliardari e con una scelta molto precisa dei Sunniti wahabiti, ossia quelli che stanno con l’Isis. Per carità non è che gli Sciiti siano tutte brave persone.

In una fase nella quale papa Francesco ci dice che è incominciata la terza guerra mondiale a pezzetti e capitoli. O questo papa dice barzellette ai funerali, o bisognerà prenderlo sul serio. Cos’è questa terza guerra mondiale?”

Sulla terza guerra mondiale Bianchi giustamente citava Carl Schmitt: “Mi viene in mente Carl Schmitt, grande giurista, perfino filo nazista, ma un’intelligenza acutissima, che negli anni ’60 disse «è incominciata la terza guerra mondiale». Ed è una guerra civile combattuta da terroristi: è la radiografia.”


4.Resistenza europea e ricerca della Pace di fronte alla terza guerra mondiale a pezzi.

Bianchi ricordò, in quello scritto, anche il simbolo antinazista della Rosa Bianca tedesca. Un’immagine che ci consegna il tema della Resistenza europea e del superamento dei nazionalismi.

Scriveva:

“Non voglio rovinare le notti a nessuno, ma quando uno va a scavare nella storia non è che si ferma a mettere un’altra lapide. Si chiede cosa stiamo costruendo, come è possibile.

Chiudo con una bella immagine della piccola, ma importante, resistenza tedesca: 'La Rosa Bianca'. Questi ragazzi di Monaco di Baviera, studenti, che si ritrovano alla sera per leggere i classici tedeschi, hanno fatto sei volantini in tutto che mettevano in giro, all’Università, nelle guide delle cabine telefoniche.

La cosa incredibile è questa: li prendono e il tribunale del popolo nazista di Monaco di Baviera li giudica alla mattina e li ghigliottinano nel pomeriggio, tale il timore che potesse il contagio attecchire. Ma la cosa stupenda è che uno dei ragazzi che vanno alla ghigliottina si rivolge all’altro e dice «comunque ci rivediamo fra dieci minuti».

Uno che ha il fegato di dire una cosa così testimonia una speranza, che non è l’ottimismo, ma un’altra cosa di estremamente positivo e motivante anche per l’oggi e per il futuro.

Credo che riandare a vedere i fatti della Resistenza in questo modo ti arricchisce, non è soltanto fare memoria. La memoria è essenziale, ma è un modo per creare un punto di vista, per guardare la vicenda nella quale, a qualche titolo, siamo dentro, ma per andare avanti.”

Il tema dell’orizzonte europeo è stato al centro del congresso del 2019 dell’Anpc, che ritroviamo nelle parole dell’allora Presidente Beppe Matulli:

“La proposta a questo congresso, di individuare nel compimento della Unione Politica Europea, l’obiettivo della nostra iniziativa, non costituisce una prospettiva “altra” rispetto alla lotta di liberazione combattuta settantacinque anni fa. Non lo è, non soltanto per una interpretazione “aggiornata” dello spirito libertario dei resistenti di allora, ma anche perché la prospettiva europea era ampiamente presente nel pensiero antifascista, e si fece ancora più acuto negli esuli e nei confinati.

Soltanto per ricordare alcuni esempi illustri, ma non certamente i soli, la prospettiva europea è fondamentale nella visione (e nella esperienza) internazionale di Luigi Sturzo, lo è nella riflessione di Carlo Rosselli che scriveva il 17 maggio 1935 su Giustizia e Libertà, “… in questa tragica vigilia non esiste altra salvezza. Non esiste, per la sinistra europea, altra politica estera. Stati Uniti d’Europa. Assemblea europea. Il resto è flatus voci, il resto è la catastrofe”.

Per ricordare infine il punto più alto della iniziativa europeista di allora nell’appello di Ventotene di Spinelli, Rossi, Colorni che continua a costituire un punto di riferimento storico e culturale.”

Certamente c’è chi etichetterà queste riflessioni come un discorso da divano o da tastiera, inutile, quasi irritante di fronte alla tragedia della guerra.

Siamo stati davvero immersi in una contraddittoria Pasqua di guerra, come ben si leggeva negli occhi di Papa Francesco in una Piazza San Pietro gremita come non si vedeva da molto tempo. Un’immagine preceduta da un’altra che rimarrà nella memoria: due giovani donne, una ucraina e una russa, che hanno retto insieme la Croce nel Venerdì Santo.

La storia ci consegna una responsabilità e la consegna anche a coloro che guidano le associazioni partigiane oggi. Apc e Anpi in primis. Queste associazioni hanno un valore di memoria ed educativo, non devono diventare uno strumento dei partiti o dei supplenti impropri nell’assenza degli stessi.

Penso sia molto importante, nell’impegno concreto e vissuto, saper leggere la complessità del nostro presente, specialmente se si è portatori di un lascito così importante.

La memoria della Resistenza e dell’antifascismo ci pone di fronte al superamento di due alibi entrambi pericolosi.

Il primo è quello del “non sapevamo”. Il secondo è quello che l’odio, la considerazione di fare parte di una fantomatica “civiltà superiore”, magari osannata da improbabili “atei devoti” siano necessari alla vittoria, in una sempre più pericolosa accettazione dell’inevitabilità della guerra.

Ha scritto bene Riccardo Redaelli nell’editoriale della prima pagina di Avvenire di sabato 9 aprile:

(…) Ora, sempre più chiaramente, si notano tendenze a uno scivolamento verso visioni manichee che suonano estremamente pericolose.

Da un lato, c’è la polarizzazione fra diritto alla difesa e diritto alla pace che banalizza, o peggio criminalizza, il tentativo di far comprendere come lo strumento militare, che gli Stati hanno il diritto di usare per difendersi, non possa mai essere un fine, ma solo un ben proporzionato mezzo, teso a evitare lo scoppio stesso dei conflitti o a spingere alla pace il prima possibile. Ma è un mezzo che si deve cercare di non usare mai.

Dall’altro lato, emerge una strana e inaccettabile fascinazione per la guerra stessa. Giustamente si documentano e denunciano gli orrori che le forze armate russe stanno compiendo, ma allo stesso tempo ci si esalta per la resistenza ucraina, si mobilitano volontari, mentre i nostri media raccontano a volte con trasporto quanti «soldati del nemico» siano stati uccisi. Dimenticando che spesso si tratta di giovani reclute strappate dalle lontane regioni periferiche dell’immenso retroterra russo, carne da cannone buttata all’attacco da un crudele autocrate e dalla sua corte di sicofanti.

Per essere chiari, ancora una volta, abbiamo chiaro che in questo conflitto vi è un aggressore e un aggredito. E che chi subisce l’attacco ha tutto il diritto di difendersi e di essere aiutato nella difesa. Ma non possiamo neppure scordare come ogni conflitto sia una ininterrotta scia di sangue, di violenza che si abbatte soprattutto sui civili indifesi. Che gli orrori non avvengono mai da una sola parte e che "guerra" significa sempre e solo sangue, lacrime, morte, fame. Non vi è nulla di affascinante nello scontro militare. E in esso non c’è nient’altro che l’orrore di esseri umani che uccidono altri esseri umani. Il nostro imperativo di europei, è, sì, quello di aiutare l’Ucraina, ma al fine di fermare la guerra il prima possibile.

Non per 'regolare i conti' con la Russia, per piegarla e marginalizzarla nel sistema internazionale. E nemmeno per disumanizzare i suoi abitanti: «Combattiamo contro invasori che non hanno più nulla di umano», ha detto il presidente Zelensky. Non è così, perché sono infiniti i conflitti anche contemporanei che mostrano gli stessi orrori traumatizzanti di Bucha, di Kramatorsk, di Mariupol... Sono gli esseri umani che fanno le guerre, non i mostri. Ed è compito di tutte le donne e di tutti gli uomini cercare ogni mezzo per arrivare a una tregua. Primo passo verso una pace vera.

Per colpire economicamente la Russia, ci si affanna a cercare fornitori di energia alternativi bussando a governi che praticano abitualmente la tortura, reprimono il dissenso, o che sono stati coinvolti in altri conflitti regionali. Si progetta l’invio crescente di armamenti – ed è chiaro che per qualcuno l’obiettivo è 'impantanare' Mosca, prolungando la guerra – e si parla sempre più della possibilità che l’Ucraina vinca militarmente, rendendo più flebili le voci e i tentativi di far tacere le armi e trovare le strade per un accordo. Come se vi fosse un che di sinistramente affascinante, di romanticamente eroico nella guerra. Ma i tanti morti, i bambini che non cresceranno mai, i giovani ancora adolescenti di entrambi gli schieramenti uccisi nella loro divisa, gli orfani, le distruzioni immani, le famiglie sradicate dalle loro case distrutte ci riportano alla dura, cruda, brutale realtà.

Non c’è nulla nella guerra che giustifichi il nostro incantamento e il nostro incitamento. Riserviamoli per la pace, quando riusciremo a farla sbocciare.”

Sono tutti temi presenti e molto approfonditi nel libro di Papa, Francesco, uscito poco prima della Pasqua a cura della Libreria Editrice Vaticana: “Contro la guerra. Il coraggio di costruire la Pace” che riporta gli interventi pronunciati negli ultimi anni in particolare sulla necessità del disarmo globale.

 

5. Andare avanti, alla vigilia del 25 aprile 2022.

Alla vigilia del 25 aprile (e della marcia straordinaria Perugia.Assisi che lo precederà) in questa primavera del 2022 che ci pone ad un secolo esatto dalla presa del potere di Mussolini, a ottanta anni ormai dalla Resistenza, stiamo perdendo gli ultimi testimoni diretti. Proprio per questo non possiamo dimenticare l’insegnamento dei credenti e dei diversamente credenti che hanno saputo combattere senza odio e hanno saputo impegnarsi per la pace, per la democrazia e per il dialogo europeo e mondale tra i popoli (pensiamo a Giuseppe Dossetti, ma anche ad Alcide De Gasperi e a Giorgio La Pira).

Se vogliamo davvero “andare avanti”, dobbiamo metterci insieme in cammino davvero sui “sentieri partigiani”, come li chiamava Pippo Morelli, sindacalista e fratello di Giorgio, Il Solitario, partigiano cristiano vittima delle violenze del “triangolo rosso” a Reggio Emilia.

I “sentieri partigiani” venivano rilanciati all’inizio degli anni ’90, all’indomani del celebre “chi sa parli” scritto da Otello Montanari.

Oggi come allora non servono posizionamenti tattici, frazionismi, esplosioni identitarie, riflessioni frettolose.

Servono, insieme ad unità e pluralismo, l’etica e la memoria del viandante. Non quella dei sedentari. Non abbiamo bisogno di medaglie, musei, liturgie, ma del passaggio e del rilancio dei valori e delle idee forza di generazione in generazione, nell’ottica del dono, non del possesso.

L’urgenza e l’urlo del tempo presente, l’esplosione di una possibile “guerra totale” e l’orrore della guerra e delle guerre che già ci sono, impongono, direbbe don Lorenzo Milani, di non: “bestemmiare il nostro tempo”.

Dobbiamo lavorare di più con i giovani, verso quella generazione che in un bell’intervento al recente congresso nazionale dell’Anpi è stata definita la generazione che, scegliendo la pace, dovrà prendere in mano la cura del mondo e il cambiamento della storia.

Ci dice, inascoltato, il Papa che dobbiamo avere “il coraggio di costruire la Pace”, ed erodere anche dai nostri immaginari, prima ancora che dalle nostre politiche, la guerra “pluridimensionale”, come l’ha definita Fulvio De Giorgi in un interessante approfondimento pubblicato dal portale www.c3dem.it

Insieme alla pace dobbiamo difendere la democrazia, con il coraggio di affrontare un conflitto sempre più multilaterale che sembra sempre più farsi strada come destino ineluttabile in un presente ancora troppo incapace, allo stesso tempo, di memoria, consapevolezza, visione e mobilitazione.   

 

Francesco Lauria, 21 aprile 2022.

PIPPO MORELLI, INTERPRETE DEL FUTURO DEL LAVORO. GUARDA LA REGISTRAZIONE DEGLI INTERVENTI SU YOUTUBE

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